Cortemilia, nei ricordi di Don Carlo

 

"C'è poi chi,come il sottoscritto, ritorna al paesello natio per gustare tutto il sapore di un piccolo mondo ormai antico..."

 

 

 

 

 

Cari amici,
quando leggerete questa lettera le scuole saranno già chiuse e le vacanze aperte. Poi si fermeranno a turno gli uffici, le fabbriche, i negozi per colmare i luoghi cosidetti di villeggiatura e ognuno godrà qualche mese o settimana di meritato dolce riposo. Le mete e i programmi vengono studiati nei minimi particolari tenendo attentamente presenti i modi e i costi. Ecco le preferenze: la montagna, il mare, le colline, i viaggi in patria e fuori, le crociere di acqua, di cielo e di terra, le escursioni private e collettive, le località famose e quelle ancora da scoprire, le nostre ubertose campagne bene reclamizzate dal nascente agri-turismo ecc. ecc. C’è poi chi, come il sottoscritto, ritorna al paesello natio (ndr. si riferisce a Cortemilia, in provincia di Cuneo dove è vissuto sin dai primi mesi di vita) per gustare tutto il sapore di un piccolo mondo oramai antico dove ha succhiato la dolcezza della vita e imparato il valore delle piccole cose guidato teneramente dall’amore di persone care, sempre vive sebbene non ci siano più.
È bello ricordare (e ricordando si intenerisce il cuore) una casetta nei campi, dalla quale partivano tante stradine, una che portava al prato, l’altra alla fonte, e al vigneto, e al Castagneto, e alla pineta..,  e che al ritorno ti riportavano a quella casetta dove una donna, dolcissima creatura, cantando le innocenti canzoni d’allora, era tutta intenta nel preparare una leccornia per i suoi piccoli che non erano uno come adesso ma tanti, almeno quattro o cinque. E poi le campane della Pieve i cui rintocchi echeggiavano, ora festosi e ora tristi, raggiungendo le più alte cime e le valli più profonde per annunciare che se ne era andato Beppe, l’ottantenne maniscalco, ma che era anche venuto Gabriele, l’ultimo frutto d’amore di Beatrice e Giulio. La campana era come un gazzettino che informava sull’ora, sul tempo meteorologico, sulle funzioni religiose, sui raduni, sulle feste, sui matrimoni, sui battesimi, sulle nascite e purtroppo anche sulle morti.
Per ogni evento aveva un suono particolare e la gente lo capiva come il musicista capisce la nota del pianoforte. La gente... uomini e donne dai comportamenti tutti originali, personaggi irripetibili, che entravano nella vita di tutti e quando scomparivano lasciavano un fascio di rimpianti. Li rivedo uno ad uno: il vecchio Francesco, anticlericale a suo modo ma che non mancava mai alla Messa domenicale delle Otto. Aveva barba bianca e un bastone bianco, terrore di noi ragazzi, che si alzava minaccioso sulle nostre teste da lontano ma che quando era vicino passava alla mano sinistra lasciando alla destra il compito di accarezzare paternamente il nostro volto.

Placido detto «il secco» per la sua magrezza, e anche «il cantiniere» perché sul davanzale del suo pozzo aveva posto una brocca che noi scendevamo e rialzavamo traboccante di acqua fresca per dissetarci a metà cammino dalla nostra casa alla scuola. Allora si andava a piedi, calzando zoccoli di legno, e i chilometri da fare erano molti.
Giuditta, detta «la fornaia» per il gran forno che aveva nell’aia della cascina, sempre acceso e dal quale estraeva fragranti pagnotte il cui profumo si sentiva da molto lontano e che lei rompeva a pezzi ai bambini che passavano per di là. E i bambini spesso e volentieri sbagliavano strada e capitavano «per di là» proprio per caso, e lei faceva finta di crederci e raddoppiava la razione per la fatica aggiunta. E noi che si era felici perché “gliel’avevamo fatta sotto il naso”.

E il parroco sant’uomo che (si diceva, e c’era chi lo giurava), un giorno d’inverno, incontrato un poverello intirizzito dal freddo, gli diede mantello, pantaloni (gli restava la sottana) e scarpe e se ne ritornò alla canonica, scalzo e vestito per un terzo. E il farmacista, detto «camicia lunga» perché, anche qui si diceva, non lasciava mai il camice bianco neppure quando andava a letto. C’era poi il maestro, dal classico pizzetto grigio, che camminava a stantuffo, quasi saltellando. Venerato da tutti perché era lui che aveva insegnato a leggere, a scrivere, a fare di conto e a diventare uomini come si deve ai nonni, ai padri, ai figli e ai nipoti per un arco di ben quattro generazioni. Ci lasciò alla bella età di 91 anni.
Quando penso al mio paesello non so perché nelle piazze (ve ne sono ben 6) invece dei Cavour, o dei Garibaldi o dei Vittorio Emanuele non ci mettono i busti di queste persone che sono
state i veri eroi del posto.
A quel caro paesello ci ritorno tutti gli anni e ci ritrovo le stesse colline, le stesse cime, gli stessi vigneti.., ma i sapori delle cose no. Il pane, l’acqua, i frutti, il linguaggio, i costumi... di una volta non ci sono più. La gente ha troppo da fare. Ieri si andava a piedi e si parlava. Oggi si corre, c’è anche chi vola. E poi se non vuoi rimanere indietro devi aggiornarti. Giustissimo. E allora bisogna andare alle fiere campionarie, scegliere i migliori fertilizzanti, le macchine di maggior resa e lavorare, soprattutto lavorare, e il tempo libero non lo vuoi mica sprecare tra questi monti?

 Oggi in poco più di un’ora sei a Tonno, a Genova, a San Remo. E così il paesello rimane silenzioso, non di quel silenzio che ti fa godere la serenità, che ti fa nascere idee, che ti aiuta a scendere dentro di te.., ma di quel silenzio che sa di vuoto, di niente, come quello di una cisterna vuota.
Ciononostante le mie vacanze le passo e, se ancora Dio me ne concederà, le passerò sempre lassù. Oltre tutto mi rivedo come ero prima di andare per il mondo, e poi, è leale dirlo, come me la pensano centinaia di paesani che emigrati vicino o lontano amano rivivere qualche settimana nei casolari, magari rifatti e ristrutturati, dei loro nonni. Anzi, c’è chi ci rimane. Non solo di vecchi. E si ricomincia a sentire e a respirare aria nuova tanto più amabile, pura e sana quanto più sa di antico.
Ritornano a funzionare forni, pozzi e stradine. Persino le stalle rumoreggiano di nuovi muggiti e di candidi belati e non è raro il caso di incontrarsi con giovani mammine che portano a spasso i loro neonati non più in braccio ma su comode carrozzine. È vero, il trattore ha preso il posto dell’aratro trainato dal lento pio bove, e il suono delle campane è a volte sopraffatto dal fischio delle sirene dei complessi industriali. Anche al mio paesello ne sono sorti una mezza dozzina. Ma in compenso non vi sono più poveri, le disuguaglianze sociali sono ridotte al minimo tanto da non accorgersene neppure, e il benessere è su tutte le tavole.
Tutto sommato è un mondo antico, piccolo, piccolo, che se n’è andato in archivio per lasciare il posto a un altro mondo, un po’ meno piccolo ma anche un po’ meno umano, vivere nel quale non è poi così impossibile. Un piccolo mondo moderno che può ancora ridare energie fisiche e spirituali ed aiutarci ad essere buoni su scala che va molto al di là delle frontiere, limitate nel tempo e nello spazio, di quando eravamo ragazzi. Un mondo che augurerei a tutti di sperimentare almeno per una quindicina di giorni.

Don Carlo