Maggio 2010 - Testimoni oculari



"IL TETTO DI CASA"
VISITA A UNA SCUOLA DI BIJAPUR

Petra è una giovane milanese di 28 anni che, grazie al Servizio Civile - un'esperienza formativa promossa dal governo italiano per giovani di età fra i 18 e i 28 anni a servizio dei Paesi in Via di Sviluppo - sta svolgendo la sua attività di volontariato a Bijapur, nel nord del Karnataka (India). Appena rientrata in Italia per rinnovare il permesso di soggiorno, ci ha telefonato per darci notizie dei bambini di una scuola di Bijapur, gemellata con due scuole italiane attraverso l’OPAM. Naturalmente ho subito chiesto a Petra di scrivere le sue impressioni anche per gli “amici di penna”, cioè i nostri ragazzi gemellati con questi amici indiani. E poi sul giornale di Maggio pubblichiamo il Progetto 1813Una scuola per 130 bambini degli slums di Bijapur”, presentato dal P. Vincent Crasta, che è il superiore della missione in cui Petra presta servizio.
Il  suo simpatico réportage ci aiuta ad entrare in quell’atmosfera vivace che solo la freschezza dei bambini sa creare e che riesce ad aver ragione di tanta tristezza e sofferenza da cui gli adulti non hanno saputo o potuto difenderli.


IL TETTO DI CASA

Ci sono due possibilità: se le autorità cittadine hanno programmato il primo taglio della corrente alle 6 del mattino, sono a posto. I 50 bambini della Child Labourers School (CLS) - a Bijapur - mi sveglieranno lo stesso, ma con calma: li sentirò chiacchierare alle sei e mezza e tagliare le verdure per la colazione alle sette.
Se invece mi va male, alle sei la corrente c'è, e una delle insegnanti sparerà a tutto volume un paio di canzoni indiane per svegliare i piccoli alunni. Danno collaterale: ruberà il sonno anche a me, che ho la stanza appena girato l'angolo, vicino all'istituto.
Dal punto di vista architettonico, in realtà, la scuola classica è in costruzione. Per ora i bambini dormono, mangiano, studiano e giocano in uno spiazzo pavimentato di circa 120 metri quadri, interamente aperto su uno dei due lati lunghi e con un tetto di lamiera.
La loro giornata ha un ritmo incessante: aiutano a preparare la colazione, ad ogni pasto si servono il cibo, puliscono piatti e stoviglie, lavano il pavimento, fanno il bucato a mano, studiano, giocano e studiano fino alle 9 di sera. Hanno fra i 6 e i 15 anni e frequentano la CLS per un anno, da giugno a maggio, nel tentativo di colmare le lacune della loro istruzione per poi essere reinseriti nelle scuole ordinarie.
Anche se quando ci vedono illuminano la nostra giornata gridando: “Good moooorning, miss! How aaare you, miss?”, le loro storie purtroppo sono cupe: due sorelle di 12 e 14 anni, ad esempio, sono state portate alla CLS poiché nella scuola in cui si trovavano prima non riuscivano a tenere il passo. Non perché sono poco sveglie – al contrario! - ma perché lo slum da cui provengono è uno dei peggiori per povertà e violenza: invece di studiare, i bambini aiutano la famiglia facendo lavori domestici, oppure bighellonano tutto il pomeriggio (se non tutto il giorno). Altri bimbi, invece, arrivano dai villaggi qui intorno, e a volte vengono lasciati addirittura per mesi da soli a curare i fratelli più piccoli e il bestiame, dato che i genitori devono spostarsi in altri stati per lavori stagionali.
Queste realtà così dure e desolanti, tuttavia, sono emerse solo attraverso domande mirate, perché altrimenti l'atmosfera alla CLS è allegra e rilassata. Sembra una grande famiglia - tenuta assieme soprattutto da 2 maestre toste - con un nugolo di pargoli adorabili. Uno dei momenti che mi ha intenerito di più l'ho vissuto quando ho scoperto come dormono: tirano delle zanzariere in modo da coprire circa due metri di larghezza per dieci di lunghezza, ci piazzano sopra dei teli per formare un tendone alla meno peggio e... dentro tutti! Uno attaccato all'altro, senza spazio né privacy.
La sistemazione spartana e l'assenza del privato però non devono stupire più di tanto, sono due delle caratteristiche dominanti dell'India: anche insegnanti, suore e segretarie dormono assieme in stanze semplici, a gruppi di 4-5 persone. Solo i preti hanno stanze individuali, ma i loro impegni sociali comunque riducono al minimo il tempo che possono dedicare ai propri interessi, come leggere un libro. L'equazione simbolo dell'India è “lavoro=vita”, e gli indiani stessi ne sono talmente consapevoli che l'hanno messa sulla bandiera nazionale: la ruota a ventiquattro raggi che si trova nella parte bianca sta proprio ad indicare un paese che lavora e prega 24 ore su 24.  
Va da sé che anch'io mi sono dovuta conformare (arrendere?) agli usi e costumi locali. La stanza che condivido con Nadia - l'altra antenna di pace - è immensa per gli standard indiani, ma appena metto il piede fuori mi ritrovo immersa nel cicaleccio collettivo, non esattamente discreto: “Non mangi il riso a colazione? E cosa mangi? Ah, oggi biscotti Hide and Seek. Uh, oggi biscotti Parle-G. Oh, oggi pane dolce. E cosa bevi? Ah, caffè. E il chai, non lo bevi? Non lo vuoi provare? Ma hai comprato una nuova collana? E dove l'hai comprata? Quanto l'hai pagata? Com'è fatta?”
Altro che cricket, farsi gli affari degli altri è il vero sport nazionale!
E l'impressione dopo quasi tre mesi di Bijapur è che indiani non si diventa, si nasce: pure i bambini non si perdono nemmeno un dettaglio e non trattengono neanche mezza domanda. Se una star di Hollywood venisse a vivere qui, probabilmente dopo una settimana richiamerebbe di buon grado tutti i suoi paparazzi, anche quelli più agguerriti.
Per sfuggire al Grande Fratello ed avere un po' di solitudine contemplativa, c'è solo una preziosa via di fuga: il tetto della casa, dove quasi ogni sera mi rifugio per guardare le stelle. Lì, in silenzio,  riconosco le costellazioni note, Orione, le Pleiadi, Cassiopea; penso agli amici, alla famiglia, all'esperienza indiana e sento tutti vicini.
   

Petra Dell’Arme