Speciale adozioni: storie di bambini-soldato



DAL KALASHNIKOV ALLA PENNA:  IL RISCATTO DI UNA VITA





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Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci (Isaia 2,4)

La storia inizia molto tempo fa, alla fine degli anni ‘80. Siamo in Sud-Sudan e una famiglia viene, come tante altre, sconvolta dalla guerra. La famiglia Naoya in un attimo perde tutte le sue certezze. La figlia maggiore Sabina viene uccisa lasciando 6 bambini orfani. I genitori riescono a riparare in Kenya, nel campo profughi di Kakuma, con i nipotini. Irene invece, la figlia minore che stava studiando a Roma grazie ad una borsa di studio, non può rientrare nella sua terra e deve cercare di sopravvivere in Italia. Ma il suo cuore è là, con i suoi cari, con la sua gente in esilio. Cosa sarà di loro, dei bambini soprattutto? Con le poche risorse che ha e con l’aiuto di qualche persona amica, prende in affitto una casa a Kalimoni, una zona rurale a 60 km. da Nairobi in Kenya, dove trasferisce i nipotini affidandoli alle cure di un’altra sua nipote rimasta incinta dopo essere stata violentata dai guerriglieri. Ma molti altri sono i bambini e i ragazzi sudanesi che hanno perso tutto e che bussano alla sua porta. Irene non sa dire di no… Trova alcune famiglie disposte a prendersi cura dei bambini orfani e della casa-famiglia. Ormai la sua vita è votata a questo scopo: salvare quanti più bambini può e prepararli a tornare nella loro terra, se e quando le condizioni lo permetteranno. Si sobbarca in Italia a un duro lavoro per guadagnare quanto serve per il mantenimento della casa di Kalimoni e per le spese della scuola: perché il sogno di Irene è che tutti i bambini frequentino la scuola. Si risparmia piuttosto sul cibo, ma non sull’istruzione.
In breve tempo i bambini accolti superano il centinaio. Aumentano le spese ed Irene non ce la fa più. A questo punto, nel 1995, avviene una sorta di miracolo: Irene viene all’OPAM, ci parla dei “suoi” bambini. Portiamo a conoscenza sul giornale la sua storia: tante persone di buona volontà accolgono il nostro appello a sostenere i bambini di Kalimoni mediante le adozioni a distanza. Grazie alla loro generosità il progetto di Irene è salvo.

Tra i tanti che bussano alla porta della casa-famiglia arriva un giorno un gruppo di 23 bambini e ragazzi, che sono riusciti a fuggire dalla loro terribile condizione di bambini soldato. Nove di loro sono i protagonisti della nostra storia.
Ma occorre fare un passo indietro, per inquadrare il drammatico problema dei bambini soldato. Le regioni meridionali del Sudan sono state per anni teatro di sanguinose guerre civili per l’indipendenza del Sud-Sudan: la prima (1955-1972) animata dal movimento Anya Nya, la seconda (1983-2005) dall’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (SPLA). Gli uomini della SPLA (Sudan People’s Liberation Army) inizialmente furono accolti dalla popolazione con entusiasmo, come dei liberatori. Ma ben presto la gente si dovette ricredere di fronte alla loro prepotenza e alle violenze commesse. La guerra divora gli uomini. C’è bisogno di forze fresche, a buon mercato. Nella cittadina di Chukudum i militari prendono tantissimi bambini e ragazzi, promettendo di portarli a studiare in Etiopia. In realtà li portavano in Etiopia per addestrarli alla vita militare: il loro destino sarebbe stato quello di bambini soldato.
Il viaggio verso l’Etiopia dura quasi quattro mesi, quattro mesi di marce per coprire 1.500 km. a piedi attraverso la savana, guadando fiumi, affrontando il pericolo degli animali feroci e degli uomini. Parecchi bambini muoiono durante il percorso: per il colera, la malaria, la febbre gialla, la fame, i combattimenti… Arrivati in Etiopia tutti i ragazzi dovrebbero essere smistati nei campi profughi ma la SPLA, eludendo il controllo della Croce Rossa Internazionale e delle Nazioni Unite, ne avvia molti nei campi di addestramento militare in zone molto remote. Qui la vita è difficilissima, molti bambini raccontano di fatiche inaudite, di terrore, di umiliazioni, di abusi di ogni genere.
Dopo cinque anni di questa vita, in Etiopia c’è un colpo di stato: la SPLA e tutti i Sudanesi sono cacciati. Inizia così il viaggio di ritorno verso il Sudan, viaggio ancor più difficile: vengono bombardati dall’esercito governativo sudanese e molti di loro soccombono. Giunti nei pressi dei loro villaggi di origine, con l’aiuto di alcuni soldati un gruppetto di 23 ragazzi riesce a scappare e trova rifugio nel campo profughi di Kakuma in Kenya. Da qui vengono affidati, grazie all’intervento di persone amiche, alle cure della casa-famiglia di Kalimoni.
Non è stato facile reinserire questi ragazzi ad una vita normale. - ci racconta Irene al suo rientro dal Kenya dove ogni anno va per seguire il suo progetto - Erano arrivati pieni di rabbia, alcuni di loro, partiti piccolissimi, tornavano grandicelli avendo visto e praticato solo violenza. Con la scuola erano tutti in ritardo, ma sono stati tutti aiutati con l’inserimento in scuole private dove venivano curate soprattutto le ferite psicologiche che li bloccavano. All’inizio avevano serie difficoltà di apprendimento, tanti erano i traumi da metabolizzare; avevano bisogno di pace e di amore. Pian piano la scuola e la Casa Famiglia diventarono i loro luoghi sicuri”.
Nove di loro, che mostravano particolari capacità scolastiche, furono avviati agli studi superiori grazie all’aiuto triennale della sezione OPAM di Orbetello. Sono riusciti a conseguire un diploma ed oggi tutti hanno trovato un lavoro in Sud-Sudan. Sono loro, che vorrei chiamare per riconoscenza “I ragazzi di Orbetello”, i protagonisti di questa storia: per ovvi motivi di privacy li indicherò con iniziali di comodo.
A. : era orfano di padre quando fu preso dai soldati della SPLA. Lo avevano convinto che la guerra civile fosse giusta, combattuta per ribellarsi al governo sudanese che voleva tutti i sud-sudanesi analfabeti: voleva vincere per andare a scuola. Oggi è riuscito a vincere la sua guerra all’ignoranza e lavora come impiegato.
B. : suo padre fu ucciso durante un conflitto tra la sua tribù e la SPLA. Per lui la guerra è un fatto normale, l’ha vissuta da sempre; combattere era un dovere indiscutibile. Oggi è cambiato il corso della sua storia: si è diplomato ed è insegnante di scuola elementare.
C. : anch’egli, privato del padre ucciso in un conflitto tribale, fu costretto a diventare soldato SPLA da bambino: aveva 9 anni. Era magro, veloce, coraggioso, un ottimo elemento per la guerriglia. Oggi è un ottimo insegnante.
D. : è l'unica donna di questo gruppo. Orfana di madre, fu rapita dai soldati della SPLA ancora bambina, fu abusata, ha vissuto a lungo in un campo profughi in Etiopia. Oggi cerca di dimenticare il suo passato grazie anche ad un buon impiego lavorativo.
E. : la madre fu uccisa in un attacco dei soldati governativi. Condanna la condotta della SPLA che gli ha rubato l’infanzia, ma anche coloro che gli hanno ucciso la mamma. Ricorda il viaggio verso l’Etiopia come un periodo lunghissimo e terribile della sua vita: ricorda che per segnalare i punti strategici per orientarsi nel cammino usavano le ossa dei loro amici morti. Oggi, grazie agli studi, è riuscito ad inserirsi nel mondo del lavoro.
F. : orfano di padre, è stato gravemente ferito dallo scoppio di una bomba. Rimessosi, oggi ricopre un ruolo importante nel campo della scuola.
G. : è stato prelevato da casa, dove viveva con la nonna, dalle milizie della SPLA. Ricorda la vita passata nei campi di addestramento come una vita disumana, l’addestramento era massacrante per la sua giovane età. Oggi è un pubblico impiegato.
H. : non avendo i genitori è stato facile preda dei soldati della SPLA. Ricorda che gli era stato comandato di uccidere i feriti anche se chiedevano solo un po’ d’acqua. Oggi ha un buon lavoro.
I. : orfano di entrambi i genitori sin da bambino. I ricordi di quel periodo ancora oggi lo tormentano. Si è diplomato e si dedica con passione ad aiutare chi si trova ad affrontare le sue stesse difficoltà.

Questi sono solo accenni di storie terribili, storie di bambini sfortunati, ma che nella loro sfortuna hanno incontrato persone che li hanno aiutati, che sono diventate ancore di salvezza a cui aggrapparsi, in primo luogo Irene, col suo cuore grande e la sua fiducia nella Provvidenza davvero smisurata. Ma anche persone per loro sconosciute, come voi benefattori dell’OPAM, ma capaci di amore. Grazie a voi hanno potuto studiare e cercare di recuperare una parte di vita che era stata loro rubata. Pur non dimenticando il loro terribile passato, ora possono sperare in una vita degna di un essere umano e rendersi utili per chi è in difficoltà.
Non per tutti infatti la storia è stata a lieto fine. Sono migliaia i bambini soldato uccisi o mutilati, migliaia quelli che in tanti modi si lasciano morire per sfuggire agli incubi della violenza subita e fatta, migliaia quelli che ancora combattono guerre di cui nessuno ha interesse a parlare per coprire con complici silenzi nefandezze di ogni genere. Bambini di ieri e purtroppo di oggi. Se è vero che nella sola Africa ci sono tuttora 120.000 bambini soldato.  
    
Letizia Custureri